Tempo fa mi è stato chiesto di parlare della mia vita da cefalalgica-emicranica, cercando di non dilungarmi troppo ma di far emergere qualcosa di positivo. Non è stato facile, come non è facile adattarsi a vivere con l’emicrania!
Un condannato a cui è stata negata più volte la grazia di solito si rassegna. Anni fa io mi sono rassegnata alla mia condanna ed è stato un bene, perché da quel momento non ho più atteso l’annullamento della pena.
Con notevole fatica ho potuto traslocare dalle perenni prigioni buie, a locali più areati e luminosi dotati di sbarre meno spesse, ottenendo anche permessi premio con palla al piedi di incerto ingombro.
Ed è cambiato anche il mio modo di parlarne: ora è un consapevole e sentito “così è e così sarà” accompagnato da uno sbrigativo:
“e non ho altro da dire su questa faccenda”
(Forrest Gump)
Vivere con l’emicrania
Il mio rassegnarmi è un adattamento dignitoso ad una vita con un dolore che annienta, che c’è e ci sarà anche se in diverse entità, considerando innanzitutto normale resistere ad una continua emergenza. Vivo con un dolore che esplode incazzato a scadenze ravvicinate.
Non penso più alla guarigione e faccio grosse rinunce per non rinunciare a tutto. Non programmo niente a lungo termine ma mi “butto” decidendo spesso all’improvviso. Mantengo quotidianamente alcuni accorgimenti per imbrigliare il dolore, ma li combino in ordine variabile e ne sperimento di nuovi per sorprendere lui e me. E spesso fallisco.
Alcune volte, quando sento che il dolore mi sta stroncando con un tempismo bastardo, mi metto in uno stato di “finta morte” per ingannarlo e non perdere un impegno improrogabile. Qualcuno potrebbe dirmi che ho male perché ho paura. Ma non è così: io vivo sospesa, con la paura perché so di non poter sfuggire al dolore.
Quando riesco ad allontanare una crisi di emicrania per pochi giorni, mi sembra di aver conquistato del tempo mai esistito prima, ma resto sempre una condannata che si aspetta una pena maggiore perché una crisi è stata un po’ meno crudele della precedente o perché è gentilmente iniziata solo al termine di un impegno importante, non all’inizio.
Il dolore emicranico
Potrebbe sembrare facile raccontato così, senza rabbia…. Beh, avrei dovuto provare a scrivere queste stesse righe durante quelle 80 ore ininterrotte in cui l’emicrania picchia forte da impazzire, senza rimedio né sosta, che fa cedere le gambe dopo tre passi. Ore in cui il motore della mia volontà, della mia fantasia, della mia forza è ostacolato, quando l’aeratore non funziona e tutta la tossicità mi si stringe attorno soffocandomi, bruciandomi ed incatenando la mia voglia di vivere.
Io li definisco giorni inutili perché resistere e sfinirmi limitando al massimo i farmaci per non peggiorare la situazione futura, non mi fa diventare una persona migliore, né ai miei occhi né a quelli degli altri: loro vedono solo “una malata lamentosa”, non una persona combattiva che si rialza sempre.
Ma quando il male asfissiante inizia a cedere, è come se le pareti si distanziassero facendo entrare ossigeno ed un chiaro invito a sporgermi oltre le sbarre, ad uscire nonostante la testa inclinata e la schiena piegata, per fare di nuovo scorta di quelle briciole preziose di cui so accorgermi e nutrirmi.
Cefalea cronica, emicrania: non un bel vivere
Ormai non ricordo più la sensazione di una testa leggera, nemmeno durante il sonno e i sogni. La cefalea cronica si insediò da bambina e mi costrinse a moltiplicare gli sforzi per riuscire sempre col massimo risultato malgrado il dolore opprimente.
Tutto senza fare uso di farmaci perché quelli provati non mi avevano dato nessun beneficio apprezzabile.
Con l’emicrania subentrata circa dieci anni dopo, però, è arrivato il tracollo fisico e morale. La prima grossa crisi ha colto impreparata me e la mia famiglia con un dolore devastante che mai mi sarei aspettata, fatto di mille lame arroventate piantate in testa. E quando ha iniziato a ripresentarsi a breve distanza, mi sono disperata.
Non sono riuscita ad impedire che crollassero progetti, rapporti, futuro. Mi sono letteralmente sgretolata anche per il senso di fallimento e a nulla è servito abbassare le mie aspettative ad un livello addirittura inferiore alla mediocrità che tanto detestavo.
Prove tecniche di sopravvivenza: adattamento
Vivere con l’emicrania è come convivere con un parassita prepotente, affamato, dispettoso e vendicativo, incompatibile con la mia più grande passione, poco conciliabile con il mio lavoro precario. Ma mentre lui esiste solo grazie a me, io mi adatto a vivere nonostante lui.
Metabolizzare i sogni distrutti è la fase più ardua dell’adattamento, perché è una ferita aperta e profonda. Serve tanta forza per reinventarsi, ricominciando con nuovi scopi e vedere sfumare anche questi. E poi custodire in uno scrigno ogni desiderio tradito. Ho dovuto imparare ad incollare sempre ogni frammento, anche se non ho mai ottenuto un Picasso e come una sarta con ago filo e pezze, rimetto in sesto quell’unico vestito che qualcun altro avrebbe già buttato.
Se mi offrissero di essere ME senza questo dolore accetterei SUBITO!!!
Proprio per quei sogni ed altri che ora non posso nemmeno immaginare, rinuncerei volentieri alle mie propensioni amplificatesi molto con l’allenamento da cefalalgica-emicranica. Tanta ironia, pazienza, resistenza, comprensione, sensi acuiti, capacità di sdrammatizzare e di non infierire, praticità rapida, lucidità, attenzione, tolleranza… calma mentre sono in coda in autostrada quando tutti invece stanno imprecando…!
Forse diventerei anche più furba ed impermeabile!
Per ora mi accontento di immergermi nel mare: come una tartaruga, a terra arranco ma in acqua riesco a nuotare anche con il dolore al suo apice, e questo mi entusiasma.
L’acqua è una necessità, è la mia serenità, un desiderio sempre ardente che il male non mi ha rubato ma anzi l’ha rafforzato.
Come le maree, come le onde io provo… no, io devo incessantemente adattarmi e rigenerarmi. Non vedo l’ora di potermi di nuovo confondere con le onde.